Premiata con l'oro un anno fa, ma soprattutto scoperta (e vergognosamente ignorata dalla giuria...) a Locarno, nel 1984, con il precedente TRILOGY, la personalità dell'inglese Terence Davies è sicuramente tra quelle che possono definirsi imperiose.
Fortemente marcato - o, forse meglio, traumatizzato, visto lo strazio, l'esaltazione, l'accentuazione stilistica con la quale i suoi ricordi si mettono in immagini - dai rapporti coi genitori, con gli educatori, con l'infanzia e l'adolescenza, Davies sembra destinato a fare di queste sue esperienze dei soggetti di cronaca. Di una cronaca familiare che si apre sul tempo che trascorre, sulla storia del mondo esterno che viene ad intrecciarsi con quella domestica.
Diviso fra i ricordi dell'infanzia (DISTANT VOICES) e l'assunzione di un presente ormai ineluttabilmente condizionato dal passato (STILL LIVES), il film si organizza nel rifiuto della cronologia, fino a formare una specie di puzzle . Nel quale gli avvenimenti più modesti (i pasti familiari, l'ascolto della radio, la pulizia del cavallo) e quelli più importanti (le nascite ed i decessi, i matrimoni e la guerra) si fondono ai luoghi del privato e del sociale (la casa di Liverpool, la strada, la chiesa, l'ospedale, la spiaggia e, più di ogni altra cosa, il pub della tradizione nazionale) in un rituale che si fa quello di tutti.
In questo cinema del ricordo, e della riflessione sulle ragioni del passato, è la statica precisione della fotografia che definisce lo stile: dagherrotipi sepia che si animano progressivamente, quando la cinepresa con lenti, quasi esasperanti movimenti viene finalmente ad inquadrarli. Ad indagare fra le pieghe di un sorriso, più spesso di una fissità amara che l'autore cerca di dedurre da quei ritratti di banale, ma rivelatrice condizione. E le canzoni. Che siano quelle della tradizione popolare inglese, o le melodie di Vaughan Williams e di Britten, che accompagnino la solitudine domestica o il ritrovarsi attorno al banco del pub, esse scandiscono incessantemente la durata del film, compaiono quasi sorprendentemente nei momenti più allegri, ma anche in quelli più tragici.
Sono il mezzo che serve non solo al regista per spezzare il rigore di un'evocazione a tratti d'insostenibile intransigenza. Ma ai personaggi: che,
immersi nel destino comune di una consuetudine che indoviniamo terribile sembrano, grazie a questi canti, ritrovare conforto e gratificazione.
E noi con loro.